Con sentenza del 27 aprile 2017, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea si è pronunciata sulla domanda pregiudiziale proposta dal Tribunale di primo grado di Perpignan (Francia), in merito alla interpretazione della direttiva 2002/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 10 giugno 2002, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative agli integratori alimentari, e delle disposizioni del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) in materia di libera circolazione delle merci.
La questione sottoposta alla Corte di Giustizia è sorta nell'ambito di un procedimento penale condotto in Francia a carico di una società francese attiva nel settore della commercializzazione di integratori alimentari, accusata di aver detenuto, esposto, messo in vendita o venduto degli integratori alimentari non autorizzati in Francia e di aver indotto in errore o tentato di indurre in errore le sue controparti contrattuali sui rischi inerenti all'utilizzo di tali integratori e sulle qualità sostanziali degli stessi, in quanto - stando all'accusa- tali prodotti superavano le dosi giornaliere massime di vitamine e di minerali consentiti per la produzione di siffatti integratori; il tutto in violazione della normativa francese di riferimento e, in particolare del decreto n. 2006-352 del 20 marzo 2016, con cui è stata recepita in Francia la direttiva 2002/46/CE, e del decreto interministeriale del 9 maggio 2006, adottato in applicazione dell'art. 5 del decreto n. 2006-352.
La società produttrice non ha contestato i fatti materiali addebitati, eccependo tuttavia la non conformità del decreto interministeriale francese del 9 maggio 2006 rispetto al diritto dell'Unione Europea. Pertanto, il Tribunale francese di primo grado di Perpignan ha deciso di sospendere il procedimento penale in corso e sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
1. se le norme nazionali, quali il decreto francese del 9 maggio 2006, che impediscono, di fatto, la commercializzazione di integratori alimentari a base di vitamine e minerali il cui contenuto nutrizionale ecceda i livelli massimi consentiti dalla normativa nazionale, siano in contrasto con la direttiva 2002/46 e i principi comunitari relativi alla libera circolazione delle merci, anche laddove tali integratori siano già commercializzati in altri Stati membri;
2. se l'art. 5 della direttiva 2002/46 e i principi comunitari relativi alla libera circolazione delle merci, così come interpretati dalla giurisprudenza comunitaria, consentano di fissare le dosi giornaliere massime di vitamine e minerali in maniera proporzionale agli apporti giornalieri raccomandati (in particolare, adottando, nel caso in questione, un valore pari al triplo per i nutrienti che presentano minori rischi, un valore pari a detti apporti giornalieri raccomandati per i nutrienti che presentano un rischio di superamento del livello tollerabile e un valore inferiore o nullo per i nutrienti che comportano i maggiori rischi);
3. se la direttiva 2002/46 e i principi comunitari relativi alla libera circolazione delle merci, così come interpretati dalla giurisprudenza comunitaria, consentano di effettuare la valutazione dei rischi di cui all'art. 5, paragrafo 1, lett. a), volta a stabilire i livelli tollerabili di vitamine e minerali, soltanto alla luce di studi scientifici nazionali, sebbene vi siano pareri scientifici internazionali che concludano nel senso di dosaggi superiori in condizioni d'uso identiche.
Ebbene, con riferimento alla prima questione pregiudiziale, la Corte, nel ricordare che la libera circolazione delle merci tra gli Stati membri è un principio fondamentale del TFUE che trova espressione nel divieto, enunciato all'art. 34 TFUE, delle restrizioni quantitative delle importazioni tra Stati membri e delle misure di effetto equivalente, ha dichiarato che le disposizioni della direttiva 2002/46 e del TFUE sulla libera circolazione delle merci devono essere interpretate nel senso che esse ostano a una normativa nazionale che non preveda alcuna procedura relativa all'immissione sul mercato di integratori alimentari, legalmente prodotti o commercializzati in un altro Stato membro, il cui contenuto nutrizionale ecceda le dosi giornaliere fissate da detta normativa. Infatti, secondo la Corte, una domanda per l'immissione in commercio di un integratore alimentare può essere respinta dalle competenti autorità nazionali solo laddove sussista un rischio reale per la salute. Di conseguenza, secondo la Corte il principio fondamentale della libera circolazione delle merci non può essere frustrato da una normativa nazionale che preveda limiti massimi non condivisi o condivisibili a livello europeo. Si collega a tale affermazione della Corte la motivazione relativa all'esame della terza questione pregiudiziale.
Infatti, per quanto attiene alla terza questione pregiudiziale, la Corte ha chiarito che, ai sensi dell'art. 5, paragrafo 1, lettera a) della direttiva 2002/46, la valutazione dei rischi, deve essere effettuata sulla base di "studi scientifici generalmente riconosciuti", indipendentemente dal carattere nazionale o internazionali dei medesimi. Pertanto, se, alla data in cui è effettuata la valutazione volta a stabilire i livelli tollerabili di vitamine e minerali, sono disponibili affidabili e recenti pareri scientifici internazionali, allora non è possibile prescindere da tali dati.
Infine, con riferimento alla seconda questione pregiudiziale circa la possibilità di stabilire i livelli quantitativi massimi di nutrienti con un criterio proporzionale rispetto agli apporti giornalieri raccomandati, la Corte ha affermato che l'art. 5 della direttiva 2002/46 e le disposizioni del TFUE sulla libera circolazione delle merci devono essere interpretate nel senso che i livelli quantitativi massimi di vitamine e minerali utilizzabili per la fabbricazione di integratori alimentari devono essere fissati caso per caso, tenuto conto dei livelli tollerabili stabiliti per i nutrienti di cui trattasi, in seguito ad una valutazione approfondita dei rischi per la salute basata su dati scientifici pertinenti, inclusi gli apporti provenienti da altre fonti alimentari, e non, invece, su considerazioni generali o ipotetiche. In risposta alla questione pregiudiziale in esame, dunque, la Corte ha ritenuto di rinviare al giudice francese la valutazione di merito, trattandosi, per l'appunto, di valutazione da compiersi caso per caso (tenuto conto che -in ogni caso- non sarebbe conforme alla normativa sovranazionale un metodo di fissazione dei livelli quantitativi massimi che non tenesse in considerazione l'insieme degli elementi di valutazione sopra ricordati).
L'articolo fa parte della newsletter Flash Food di giugno 2017.